Si sa che l’impresa sanitaria è costosa e lo sarà prevedibilmente di più in futuro. La velocità del progresso scientifico, l’innovazione tecnologica, le tendenze demografiche verso l’invecchiamento della popolazione che comporta malattie croniche, le esuberanti necessità di benessere di salute degli individui, incidono significativamente sui conti economici della Sanità facendo di questi un argomento attuale, dibattuto e tormentato.
Ai crescenti costi – che potremmo definire ‘fissi’ – per consentire all’impresa sanitaria di esercitare la sua intrinseca funzione, si aggiunge poi l’effetto economico negativo degli eventi con conseguenze dannose per i pazienti: da questi dipendono contenziosi e risarcimenti, trattamenti diagnostico-terapeutici supplementari, pubblicità negativa e danni alla reputazione, nonché costi sociali sotto forma di crescente morbilità della popolazione, riduzione della capacità lavorativa, perdita di fiducia nel sistema sanitario e nelle istituzioni.
Le ultime stime dell’OCSE sugli incidenti sanitari (https://www.oecd.org/els/health-systems/The-economics-of-patient-safety-March-2017.pdf) ci informano che trilioni di dollari vengono spesi ogni anno nel mondo per trattare sinistri sanitari evitabili, e che il 15% della spesa sanitaria nei 35 Paesi membri è una diretta conseguenza degli eventi avversi, con infezioni correlate all’assistenza e reazioni avverse ai farmaci ai primi posti per frequenza.
Non che in altri settori industriali complessi e rischiosi, come ad esempio l’aviazione, manchino gli incidenti, ma un semplice confronto di numeri fa riflettere giacché molti approcci alla sicurezza e strategie per la gestione del rischio sono condivisi. Consideriamo, ad esempio, che il numero globale dei disastri aerei annui è stato abbattuto in venti anni (1999-2018) di circa il 50%: le cifre dell’AviationSafety Network (https://aviation-safety.net/statistics/period/stats.php?cat=A1), dalle cui stime sono stati esclusi i voli dei jet aziendali e i trasporti aerei militari, mostrano appunto che gli incidenti aerei mortali sono passati da una media di oltre 40 casi annui alla fine degli anni ’90 (per l’esattezza 44 incidenti nel 1999) ad una media inferiore a 20 dopo il 2016 (precisamente 17 disastri nel 2016; 14 e 16 rispettivamente nel 2017 e nel 2018).
In Sanità, per contro, quasi vent’anni dopo il primo rapporto dell’allora Institute of Medicine americano (“To Erris Human”1999), sulle morti causate da errori medici evitabili negli ospedali statunitensi, le statistiche degli incidenti sanitari conservano numeri esorbitanti. Oltre 250.000 persone muoiono ogni anno negli USA a causa di errori medici, portando questi a essere la terza causa di morte dopo le malattie cardiache e il cancro secondo uno studio pubblicato nel 2016 da ricercatori facoltà di Medicina della Johns Hopkins University (https://www.bmj.com/content/353/bmj.i2139). Sono in proposito facilmente immaginabili le alluvionali perdite economiche a essi conseguenti.
Meno conosciuta perché meno analizzata è la realtà dei Paesi d’Europa, però da un recente rapporto della Commissione Europea sui costi delle cure non-sicure (https://ec.europa.eu/health/sites/health/files/systems_performance_assessment/docs/2016_costs_psp_en.pdf) si apprende che la Germania sacrifica ogni anno circa il 2% della spesa sanitaria pubblica per gli eventi avversi ai farmaci, che l’Inghilterra ne spende il 2.6% (1 bilione di sterline all’anno) e il Belgio circa il 6% per le infezioni correlate alle pratiche clinico-assistenziali.
Certamente la Sanità è un settore molto difficile, anche in Paesi sviluppati e con sistemi d’avanguardia: coinvolge soggetti malati ed evoluzioni cliniche influenzate da fattori imponderabili; c’è una quota d’incidenti sanitari che pur essendo complicanze attese della pratica clinica, queste sono percepite dai pazienti come eventi avversi; le aspettative di salute sono molto elevate e diventate quasi, nel sentire comune, pretese di risultati migliorativi; infine, non mancano i tentativi di speculazione che tengono alti i livelli del contenzioso.
Sta di fatto che una Sanità che viaggia a una velocità da schianto economico, e non solo per la sua intrinseca natura costosa ma anche per l’aggiunta di molti costi potenzialmente evitabili, non è ragionevolmente a lungo sostenibile sul piano finanziario: secondo le previsioni di Frost e Sullivan (https://store.frost.com/patient-safety-in-healthcare-forecast-to-2022.html), entro il 2022 gli eventi avversi in Sanità comporteranno un onere economico di 383.7 bilioni di dollari per USA ed Europa Occidentale. Tutto ciò, si badi bene, nonostante l’impegno profuso su scala internazionale per lo studio e la realizzazione di strategie e programmi per la gestione del rischio sanitario, che evidentemente non è più sufficiente.
Dopo diversi anni di esperienza medico-legale, fatta di contenziosi penali e civili per responsabilità professionale sanitaria, di riflessioni sull’evitabilità di eventi avversi e danni alla salute, e di confronti vivaci con i colleghi su questi temi, ho compreso che denunce e richieste risarcitorie dei pazienti sono frequentemente motivate da ostacoli nella relazione di cura.
E anche quando alla radice di un incidente vi sia stato errore clinico grossolano, il contenzioso è spesso sostenuto e motivato da problemi relazionali tra paziente e operatore, generalmente medico. Può darsi che i pazienti siano propensi a denunciare quei professionisti meno disposti ad ascoltare il loro punto di vista o ad accoglierli benevolmente; oppure può essere che i professionisti colpiti dalle denunce siano meno propensi ad accogliere positivamente il rapporto con il paziente, e quindi diventino più trattenuti nella comunicazione, meno disponibili all’ascolto e più proiettati sulla medicina-difensiva, alimentando così un circolo vizioso. Il rapporto, sottovalutato, tra professionista sanitario e paziente, resta in ogni caso l’elemento cruciale e il tratto caratterizzante l’attuale Sanità del conflitto, come recentemente colto dal legislatore con sensibilità e attenzione.
La legge 24/2017, che sin dal titolo annuncia dedicarsi alla materia della sicurezza delle cure e della persona assistita ponendosi a tutela del paziente e al tempo stesso del professionista, considera la relazione di cura elemento portante dell’attività sanitaria. “L’obiettivo a cui tende senza incertezze la nuova legge – spiega il relatore Federico Gelli nel commento sistematico al testo – sta in una semplice ma efficace proposizione: porre il paziente al centro di un sistema di cure sicuro e ben presidiato, in cui l’esercente sanitario torni ad essere protagonista di una recuperata alleanza terapeutica”.
La legge porta perciò con sé il superamento di un antico modello di relazione medico-paziente. Essa coinvolge nell’alleanza tutti gli esercenti la professione sanitaria e plasma una relazione che incarna ‘la cura’, la quale perde a sua volta i connotati di attività terapeutica (propria del medico) per assumere più piene sembianze di un articolato insieme di prestazioni volte a tutelare la salute del paziente. Ogni organizzazione sanitaria dovrebbe conseguentemente assicurare lo sviluppo di percorsi integrati, fondati sul principio della presa in carico complessiva del paziente.
E’ senza dubbio apprezzabile il proposito del legislatore di richiamare l’attenzione sul valore dell’alleanza tra professionista e paziente estendendone la portata a tutte le figure professionali interagenti sul malato. Ciò con il duplice scopo di migliorare la qualità e la sicurezza delle prestazioni a garanzia del paziente, e di riequilibrare l’impostazione del processo di cura contribuendo anche a sostenere il medico nell’impegno quotidiano: il numero dei pazienti è crescente; il carico burocratico, in parte informatizzato, è soverchiante; il tempo a disposizione per una visita, volendo soddisfare tutti e contenere i tempi di attesa, può arrivare a meno di 10 minuti; il livello di gratificazione è conseguentemente molto basso.
Un’equilibrata condivisione con altri professionisti dell’impegno derivante dalla relazione di cura, aiuta quindi il medico stesso a sentirsi parte di una squadra e, pertanto, a non sentire il bisogno di rifugiarsi in una visione fredda e tecnicistica della malattia dove la persona è percepita solo come caso clinico e il paziente è identificato con il suo organo malato.
In medias res il legislatore prosegue con l’idea che recuperare l’alleanza terapeutica implica la disponibilità al dialogo con il paziente anche quando egli sia comunque determinato ad avanzare le proprie doglianze. Ne è speciale espressione l’articolo 8 sul tentativo obbligatorio di conciliazione, che impone la partecipazione di tutte le parti all’accertamento tecnico preventivo per favorire “tutte le possibili interazioni (anche dialettiche) utili a comporre bonariamente la vertenza”.
La comunicazione è in effetti l’elemento portante di tutto il processo volto all’umanizzazione della medicina, di cui si parla molto sebbene in modo poco chiaro, e che riguarda tutti i momenti di contatto con il paziente compreso quello, in extremis, in cui egli è proiettato verso la petizione risarcitoria. In questo caso, la relazione e il dialogo fungerebbero da cura per la malattia sociale che sta travolgendo l’odierna Sanità.
La successiva legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), ha rafforzato la centralità del tema dell’alleanza terapeutica stabilendo all’articolo 1 che sia “promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”.
Essa recupera il principio già espresso all’articolo 20 del codice di deontologia medica sulla relazione di cura, ed estende di fatto l’alleanza terapeutica “in base alle rispettive competenze, (a)gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria”, analogamente a quanto stabilito dalla legge 24/2017.
Il coinvolgimento di tutti i professionisti non si esaurisce quindi in una semplice sommatoria di singole prestazioni, ma diventa un raggruppamento compatto e flessibile di attività cliniche pianificate in cui sono valorizzate le dimensioni della continuità assistenziale e degli esiti.
Inoltre, il legislatore riconosce e dedica un intero comma (comma 8), alla precisazione che il tempo dedicato alla comunicazione è tempo di cura. Il tempo della cura e il tempo della comunicazione nella cura, guadagnano così un maggiore livello di considerazione rispetto all’efficientismo aziendalistico. Una comunicazione non adeguata comporta difatti la violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente (e un consenso non valido), da tempo oggetto di risarcimento autonomo quale scelta di politica del diritto in linea con il sentire comune e con l’opera legislativa. L’ambizioso progetto del legislatore nasce, allora, in tempi maturi per una reinterpretazione del concetto di cura, affinché essa sia modellata sulla persona e presupponga una scelta da parte del paziente che sia frutto di una condivisione “alla pari” con il professionista sanitario.
Di fianco alle espressioni del legislatore, non mancano d’altronde i richiami all’argomento da parte di medici di nota esperienza e acclarato valore professionale.
Claudio Rugarli, professore di medicina interna e clinico emerito, in “Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura” (2017), ricorda che“La diagnosi, la prognosi e la terapia non sono il fine ultimo dell’attività del medico, ma un mezzo per stabilire una relazione con l’intero che è costituito dall’uomo che gli sta di fronte. Esiste, infatti, una dimensione della malattia che va ben al di là dell’oggettivazione del disordine corporeo”.
Con lo stesso intendimento, più recentemente Vittorio Lingiardi, medico e professore di psicologia dinamica, osserva (in “Diagnosi e destino”, 2018) che “Viviamo tempi in cui il medico ha perso di vista l’altro suo compito principale, oltre a quello di curare: instaurare una relazione, foss’anche di un quarto d’ora, con il paziente. Prendere in cura le persone e non solo le malattie. Paradossalmente sono proprio i successi nei confronti delle malattie ad avere determinato gli insuccessi nei confronti delle persone. Una volta accadeva il contrario, e il valore della relazione medico-paziente apparteneva al sentimento della comunità”.
La relazione tra professionista e paziente è pertanto ancora insostituibile, sebbene questa sia l’epoca in cui gli algoritmi, i processi di machine-learning e le intelligenze artificiali sono in crescita sia nel campo della diagnostica che in quello della terapia.
L’idea di sostenere il sistema sanitario basandosi quasi esclusivamente sul raggiungimento di migliori performance e sull’efficientamento dei percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali, sembra dunque non avere più margini per andare a discapito della comunicazione e dell’intesa empatica con la condizione del malato: la persona malata ha perso qualcosa, la rappresentazione di sé cui è abituata, il senso di sicurezza; si sente sola e cerca quindi un’alleanza con il professionista per la realizzazione della cura. La relazione con il paziente è anch’essa cura, ossia elemento condizionante la variabilità degli esiti. Sta, perciò, nella relazione, quel valore – tutto umano – delle abilità non-tecniche che fanno della Medicina ancora un’Arte e non solo una grande Scienza rendendo la prestazione sanitaria un momento d’interpretazione, non solo di mera esecuzione, con effetti rilevanti sullo stato d’animo delle persone; stato d’animo che condiziona anche l’eventuale petizione risarcitoria e, in senso più generale, il grado di tensione sociale e di sfiducia nei confronti della Sanità. Un rapporto tra professionista e paziente improntato all’alleanza e forte di un ritorno all’umanizzazione, favorisce difatti il legame tra le persone e indirizza la scelta verso la via della collaborazione anziché verso quella della lite.
Questa è la sfida cui sono chiamati a rispondere tutti gli esercenti una professione sanitaria, per un sistema sanitario che sia sostenibile a lungo termine economicamente e socialmente; anche perché, in caso contrario, si verrebbe inevitabilmente a scardinare l’alta funzione sociale che la Medicina è chiamata a svolgere.